Blog
L’interprete in televisione: intervista a Elia Rigolio
Elia Rigolio collabora come interprete presso le istituzioni dell’Unione Europea e, dal 2006, anche per la televisione, all’interno di programmi motoristici e di spettacolo. In questa intervista ci siamo focalizzati sul suo lavoro in tv e sulle sue specificità.
Come sei diventato interprete in televisione?
Come spesso accade, ci ha messo lo zampino il caso. Partiamo però dicendo che il lavoro in televisione è un po’ anomalo rispetto a quello standard dell’interprete, per cui non tutti gli interpreti accettano di lavorarci, e non tutti piacciono ai clienti, per ragioni che non inciderebbero su un incarico tradizionale. Mi spiego: a volte i colleghi non vogliono lavorare in televisione perché trovano molto stressante la gestione dei tempi (ne parliamo poi) e il fatto di essere ascoltati da migliaia (o milioni!) persone. Quanto alle richieste del cliente, capita che la voce dell’interprete, banalmente, non piaccia, non funzioni bene in televisione, senza che ovviamente questo dipenda dalla qualità del lavoro fatto dall’interprete.
Inizialmente, ho avuto la fortuna di intercettare una richiesta di un cliente di AMI che aveva bisogno di un interprete uomo per alcuni eventi sportivi. Ci siamo piaciuti a vicenda, e da cosa nasce cosa.
Per quali tipi di eventi lavori? Ci sono differenze dal punto di vista tecnico a seconda del programma per cui vieni chiamato?
In televisione esistono per lo più due tipi di interventi, da un punto di vista tecnico: in un caso, l’interprete sta sul palco o in studio con gli ospiti, e sussurra tutto quanto viene detto alla persona per cui si traduce. È una modalità in qualche modo simile all’interprete che segue le trattative tra aziende, o che accoglie un ospite internazionale, cui si dedica con un servizio ad personam. In questo caso l’interprete si vede ma quasi non si sente, se non nel momento in cui l’ospite straniero prende la parola.
Più spesso, l’interprete è invisibile e sta in una cabina di simultanea, da cui traduce quello che vede, di solito sullo schermo. La scelta dipende dal tipo di programma, ovviamente, e dal numero di ospiti per cui si traduce.
Ogni programma poi ha una sua specificità, come succede per tutti i clienti. Un evento sportivo sarà diverso, per toni, linguaggio tecnico e eleganza del linguaggio (il registro, per dirla correttamente) rispetto a un dibattito politico o a un evento della moda o dello spettacolo.
Traduci più gli uomini o più le donne? Ci sono delle differenze?
In televisione vige una regola che di solito non esiste nel mondo dell’interpretazione: gli uomini vengono sempre tradotti da uomini, e le donne da interpreti donne. Capita raramente di sgarrare alla regola; succede per esempio quando il cliente non ha ingaggiato una collega perché non erano previste donne (per esempio negli eventi sportivi, che per loro natura prevedono una separazione netta dei sessi), ma qualche breve intervento femminile può comunque capitare.
Questa distinzione per altro modifica radicalmente la gestione del lavoro: per prima cosa, perché non esistono i turni di riposo classici. Se di solito gli interpreti si alternano ogni venti minuti o mezz’ora, indipendentemente dagli oratori che stanno parlando, in televisione questa cosa non si può fare: io dovrò interpretare tutti gli uomini, anche se parlano per due ore filate, e la mia collega dovrà fare altrettanto nel caso di una rapida successione di interventi femminili.
In secondo luogo, capita spesso che ci siano scambi molto veloci tra le persone da tradurre, con botta e risposta che vanno gestiti a due voci: ciascuno degli interpreti dovrà essere attentissimo a quello che dice e fa l’altro, e non può permettersi di chiudere in ritardo un intervento, perché rischia di tagliare completamente i tempi a disposizione del o della collega.
Ci spieghi meglio questa questione del ritardo?
In un contesto normale, gli interpreti traducono con alcuni secondi di ritardo rispetto all’originale. Non è un errore, anzi: nelle scuole si insegna ad aspettare, perché è importante non tradurre parola per parola, ma attendere di avere almeno un segmento di frase con una struttura che sia almeno intuibile, per impostare correttamente la frase nella lingua verso cui si traduce. Questo ritardo, che si chiama décalage, può ampliarsi o ridursi nel corso di un intervento, ma in chiusura delle frasi spesso è più lungo, e può arrivare addirittura a una decina di secondi.
In televisione però un ritardo del genere non è accettabile; un po’ perché non è bello vedere un primo piano di una persona che evidentemente non sta parlando, mentre la sua voce tradotta continua a parlare per diversi secondi; e un po’ perché la televisione ha orrore dei tempi morti, ha un ritmo sempre incalzante. Quando si lavora in televisione quindi ci viene richiesto di ridurre al minimo il décalage, soprattutto in chiusura di frase. Si fa quel che si può, ovviamente, compatibilmente con la necessità di trasmettere comunque tutto il messaggio. Meno male che spesso gli interventi sono comunque un po’ ripetitivi, e qualche parola in chiusura si riesce a tagliare senza danni!
Quali sono gli aspetti a cui presti maggiore attenzione mentre traduci?
Oltre alla questione del décalage, l’altra grande differenza secondo me sta nella gestione della voce che, come dicevamo, ha un ruolo ancora più importante in televisione.
Mi successe, quando già lavoravo da qualche tempo in alcuni programmi, di essere messo nella stessa cabina di lavoro insieme a un commentatore sportivo.
Mi colpì molto il volume con cui parlava (noi cerchiamo sempre di risparmiarci la voce, dovendo parlare anche diverse ore al giorno), ma soprattutto l’emozione che cercava di trasmettere. Addio ai toni felpati della diplomazia o delle presentazioni aziendali, qui bisogna spingere molto sul pedale dell’emozione! Non è una cosa sempre semplice, soprattutto all’inizio, perché non siamo così abituati a “recitare”.
Ci spieghi meglio queste differenze con l’ambito istituzionale, per citare un altro settore in cui sei specializzato?
Le istituzioni internazionali stanno all’estremo opposto in effetti. Tranne rari casi, il lavoro per esempio al Consiglio dei Ministri dell’UE richiede una grande eleganza nel linguaggio, e un tono sempre cortese, sempre molto posato, anche quando è veloce.
La voce non si alza mai, nemmeno quando il commento dell’oratore è magari un po’ stizzito o secco. Diciamo che il range delle emozioni è ridotto al minimo. Quando si lavora in azienda, già c’è un po’ più di libertà ma di certo siamo lontani da quello che può essere richiesto in tv…
L’interprete in televisione quindi è anche un po’ artista, un po’ attore? Ha dei punti di contatto con una figura come il doppiatore?
Un po’ sì. Mi è capitato di dover tradurre delle frasi canticchiando, per esempio: chi aveva in mano il microfono indossava una grande gonna di paillettes dorate e saltellava cantando. Chiaramente non si può fare la voce impostata in un contesto del genere!
Però bisogna stare attenti a non fare confusione: l’interprete non è un doppiatore, che padroneggia la dizione e la recitazione a livelli che gli interpreti non possono pensare di raggiungere. Sono due professioni altamente specializzate, e anche se qua e là c’è qualche punto di contatto, è bene tenere a mente la differenza.
Prendi appunti mentre traduci per la tv? Quale metodo usi?
Come sempre in simultanea, ho in mano una penna, questo sì. Ma non serve a prendere appunti nel senso classico della consecutiva. Serve ad appuntarsi nomi, numeri, parole di elenchi, e magari qualche bella soluzione linguistica da tenere pronta all’uso. Ma gli appunti, per così dire, vanno presi prima: come sempre, bisogna studiare a fondo la materia (per esempio il gergo tecnico del tennis, se dovessimo intervistare Djokovic) e segnarsi i dati aggiuntivi, che spesso hanno a che fare con la vita privata degli intervistati.
A differenza degli altri settori, facilmente le domande saranno personali, per cui è importante sapere il nome di mogli, mariti e figli, i film in cui l’intervistato ha recitato in passato o le partite più importanti in cui ha gareggiato. Sono informazioni che possono occupare anche molte pagine di appunti.
Quali sono i pro e i contro di lavorare come interprete in televisione?
Il primo vantaggio che può venire in mente è quello della visibilità – che però, come dicevamo, può essere anche una grossa fonte di stress! Gestire bene i tempi, non perdersi nulla mentre milioni di persone ascoltano e possono magari puntare il dito contro un’incertezza di troppo può essere davvero un grosso carico emotivo.
Ma l’ambiente può anche essere molto affascinante. Io non ho mai avuto grandi contatti con i presentatori o le star tradotte (ma questo dipende dalla mia esperienza personale, non è necessariamente così per tutti), ma aggirarsi nel mondo della televisione resta estremamente interessante: si capisce com’è fatto uno studio televisivo e si coglie almeno in parte la complessità della macchina produttiva. È davvero impressionante vedere quante persone stanno dietro alla riuscita di un programma, e vedere i vari pezzetti che si incastrano per produrre il risultato finale, e essere anche solo una piccola parte di quel risultato è una bella emozione!
Per saperne di più sul ruolo dell’interprete in televisione o richiedere un preventivo puoi contattarci al numero 02 86 45 04 62 o alla mail ami@milanointerpreti.net
Categorie
- intelligenza artificiale (1)
- interpretariato (16)
- interpretariato da remoto (1)
- Lingue (6)
- simultanea (5)
- traduzione (10)